Il Riflesso Dimenticato
Non vedevo mia sorella da quasi dieci anni. La vita ci aveva separati: io ero rimasto nella nostra piccola città di provincia, intrappolato in un lavoro sicuro ma senza passioni; lei, invece, era fuggita a Milano per inseguire il sogno dell'arte, diventando una persona che conoscevo solo attraverso le telefonate fredde e i racconti distanti di mia madre.
Quando tornò per le vacanze estive, non riconobbi la ragazzina con le trecce che ricordavo. Al suo posto c'era una donna. Si chiamava Elena, ma per me era sempre stata solo "Ele". Ora, però, quel nome sembrava troppo piccolo per lei. Aveva un modo di muoversi che catturava la luce, un sorriso che nascondeva segreti che non avrei mai potuto immaginare.
La prima sera fu strana. Eravamo seduti sul vecchio dondolo in veranda, i nostri genitori già a letto. Il silenzio tra noi non era imbarazzante, ma denso, carico di parole non dette. Fu lei a romperlo.
"Sei esattamente come ti ricordavo," disse, la sua voce un sussurro nel buio. "Solo più... fermo."
"E tu sei completamente diversa," risposi, forse con troppa onestà.
Rise, un suono cristallino che mi fece vibrare qualcosa dentro. "Diverso è un bene o un male?"
"Non lo so ancora," ammisi.
Nei giorni seguenti, iniziammo a conoscerci di nuovo. O forse, a conoscerci per la prima volta. Scoprii la sua passione per i film d'autore, il suo odio per le mattine presto, il modo in cui si mordeva il labbro inferiore quando era concentrata. E lei scoprì me. Non il fratello maggiore, ma l'uomo. Vidi il modo in cui i suoi occhi indugiavano sulle mie braccia quando spostavo la legna per il camino, o come il suo respiro si faceva più corto quando, per caso, le nostre mani si sfioravano.
Una notte, un temporale estivo ci sorprese. La pioggia batteva violenta contro i vetri e un fulmine fece saltare la corrente. Rimanemmo al buio, illuminati solo dai lampi intermittenti. Eravamo in salotto, e nel caos del momento, inciampai, finendole addosso sul vecchio tappeto persiano.
Per un istante, rimanemmo immobili. Il mio corpo sopra il suo, il suo profumo di pioggia e pelle che mi riempiva i polmoni. Potevo sentire il suo cuore battere all'unisono con il mio. Un lampo illuminò la stanza, e nei suoi occhi non vidi paura, né imbarazzo. Vidi solo un riflesso del mio stesso desiderio.
"Non dovremmo," sussurrò lei, ma le sue mani non mi stavano spingendo via. Anzi, si erano aggrappate alla mia schiena, tirandomi più vicino.
"Lo so," risposi, la mia voce roca. E poi la baciai.
Non fu un bacio tra fratello e sorella. Fu un bacio che cancellava anni di distanza, che riscriveva ogni regola che avevamo mai conosciuto. Le sue labbra erano morbide, avide. La sua lingua incontrò la mia con una familiarità sconvolgente, come se si fossero sempre cercate. Le mie mani scivolarono sotto la sua maglietta leggera, trovando la pelle calda e liscia della sua schiena. Lei gemette contro la mia bocca, un suono che fu inghiottito dal tuono.
Ci spogliammo lentamente, guidati più dall'istinto che dalla vista. Ogni lampo era una fotografia proibita: i suoi seni pieni, il mio petto teso, le nostre gambe intrecciate. Non c'era vergogna, solo una strana, inebriante sensazione di essere finalmente nel posto giusto. Quando entrai in lei, entrambi sospirammo. Era come tornare a casa in un luogo dove non sapevamo di essere mai stati. Ci muovemmo insieme, un ritmo antico e nuovo allo stesso tempo, un segreto condiviso solo con la tempesta fuori. E in quella notte, al buio, non eravamo più fratello e sorella. Eravamo solo due corpi, due anime, che si erano finalmente ritrovate nel riflesso dimenticato del proprio desiderio.
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